Nel primo ospedale ci entrai dopo il mio incidente, due mesi dopo quello dei miei genitori. Morti tutti e due sul colpo, schiacciati da un camion. Avevo diciotto anni e tre giorni. Ero un adulto, mica potevano darmi in adozione, a diciotto anni suonati. Qui è la stradale, è lei il figlio di e di? Non avevo mai capito di amare i miei genitori, prima. Iniziai a bere, a urlare per strada senza motivo, a correre in auto di notte. Mi schiantai contro un muro, ma restai vivo. Anche abbastanza intero. Così mi trovai nel primo ospedale.
Ricordo poco del primo ospedale, perché mi facevano molto dormire. Ricordo solo che a un certo punto mi dissero, se vuoi puoi fare una cura speciale, che ti farà stare meglio. Firmai dei fogli, salii su un’ambulanza. Non so se si possa dire che fosse una mia decisione, lasciavo passare gli eventi, il concetto di futuro non mi apparteneva più, o non ancora.
Il secondo ospedale lo ricordo bene. Non sembrava nemmeno un ospedale: era bello, pulito, si mangiava bene. Per qualche settimana fu quasi una vacanza. Mi davano medicine che mi facevano sentire meglio, più forte, più lucido. C’era una palestra, mi facevano allenare, minimo un’ora al giorno, poi due, poi tre. Non ero mai stato muscoloso, ma dopo qualche mese il mio corpo iniziò a cambiare. Mi chiesero se volevo da leggere, chiesi dei fumetti, mi portarono un pacco di quelli dei supereroi. Fu lì che conobbi Wolverine.
Un solo medico parlava la mia lingua, pur se con accento straniero: si chiamava Albert, era gentile, mi diceva che avrebbe potuto fare molto per me, che ero molto fortunato a far parte di quel progetto. “Il progetto Lizard?” domandai un giorno. Si stupì. Dissi che avevo letto quel nome sulla mia cartella clinica. Il dottor Albert si complimentò, disse che il mio spirito di osservazione stava migliorando. Chiesi cosa significasse, mi rispose “lucertola”. Lucertola? Sì, rispose, perché una lucertola sa rigenerarsi, sa guarire se stessa.
Ad un certo punto Albert mi disse che la fase preparatoria era finita ed era il momento di iniziare la vera cura. Mi portarono in una specie di laboratorio segreto, tipo quelli dei cattivi dei fumetti. Iniziarono a immergermi ogni giorno in una grande vasca d’acqua in cui dovevo trattenere il respiro, ogni volta per più tempo. Poi un giorno mi dissero, sei pronto. Questa volta devi respirare, sott’acqua. Ricordo i volti deformati dei medici, attraverso l’azzurro della vasca. La paura di morire, che avevo dimenticato. Non avevo scelta, respirai. Un dolore forte mi invase la schiena, poi l’azzurro diventò nero. Mi svegliai nel mio letto. Capii dal volto del Dott. Albert che avevo fallito.
Qualche giorno dopo tornò da me, mi disse che c’era un’altra cosa che si poteva provare. Un’altra fase del progetto. Iniziarono le iniezioni, e poi le ferite. Ho ancora cinque tagli lungo ogni braccio, dieci in totale. Sempre più profondi, dal gomito verso il polso. Sembrano due lunghi pentagrammi. I medici andarono avanti per circa due settimane a esaminarli e fotografarli, poi non so cosa andò storto, e una mattina mi svegliai nel terzo ospedale.
Qui incontrai Anna, la mia infermiera, la mia seconda madre. Mi disse che mi avevano trovato per strada, delirante. Che ero scappato dall’ospedale psichiatrico. Dal primo ospedale. Del secondo, nessuno sapeva niente. Le mostrai le ferite sulle braccia, le dissi guarda, questo mi hanno fatto, pochi giorni fa. Ma Anna disse che quelle ferite non potevano essere di pochi giorni prima, neanche di poche settimane. Che erano completamente cicatrizzate e potevano risalire a minimo un anno prima, e che molto probabilmente me le ero procurate da solo. Nessuno mi credeva, mi prendevano ancora di più per pazzo. Schizofrenia. Allucinazioni. Si crede un eroe dei fumetti, dicevano. Non raccontai più niente, decisi che volevo vivere. Volevo di nuovo una vita normale. Non che ci sia riuscito però, non ancora.
Dalia Parenti, che ne so io di lei? Cazzo c’entro io con lei? In queste foto vedo una donna bella, ricca, forse anche felice. Di quelle persone che dal vero non incontro più, che mi fanno paura. Sono davvero poche le persone che incontro dal vero, ormai. Soltanto lo psichiatra, che sono costretto a vedere una volta a settimana per conservare il sussidio, e qualche volta Anna. Per il resto, vivo chiuso in due stanze e nel web.
Ogni contatto con il mondo passa attraverso il mio pc. Qualche volta scrivo, con nick sempre diversi. Racconto la mia storia, in certi siti web qualcuno mi crede, o forse finge di credermi. In altri mi danno del pazzo, del complottista, del truffatore. Così poi mi stanco e non racconto più niente. Vorrei smettere di pensarci, ma non è facile. Guardo molti video su YouTube, a volte cerco quelli di sesso, ma più spesso quelli di morte. Mi piacciono soprattutto i video degli incidenti stradali, sentire le urla prima dello schianto. Sapere che sono urla vere, non come quelle dei film. Oppure le morti in diretta, dei presentatori in tv, degli sportivi in campo, dei cantanti sul palco. Cerco il momento esatto in cui smettono di respirare. Dopo averla vista così da vicino, la morte in qualche modo mi manca. Sogno ancora di soffocare in quella vasca, sogno il dottor Albert che mi taglia le braccia e sogno le lucertole, tante lucertole, che corrono sui muri di casa e mi entrano nel letto.
Anna ha detto che scrivere in questo gruppo mi farà bene e forse ha ragione. Ho scelto apposta il nome di Wolverine, l’eroe indistruttibile che guarisce da tutte le ferite. Quello che dovevo diventare grazie al progetto Lizard. Ma il progetto è fallito, o forse non è stato vero niente, e davvero l’ho solo sognato. Forse sono solo pazzo e basta. È tanto che non ho una ragazza. Dalia Parenti. Sembra così normale e felice. Chissà se invece anche lei è ferita, come una lucertola tagliata a metà che vorrebbe rigenerarsi. Chissà se è vittima o carnefice, o entrambe le cose. E’ ora di scrivere il mio racconto.