Graziosa questa Dalia. Avrà trent’anni, forse meno.

Anche io ero graziosa, a trent’anni. Ora non mi specchio quasi più, specie da quando sono in pensione e non devo più rendermi presentabile per andare al lavoro. Solo le mani, quelle me le vedo sempre, anche ora, mentre batto sulla tastiera. Ma sono fortunata, le mie mani sono ancora abbastanza giovani, le macchie, le vene sporgenti, tutte quelle brutte cose che escono fuori sulle mani delle vecchie, ancora non ci sono, così posso immaginare che anche il resto di me sia rimasto come le mie mani.

Quando scrivo sto bene, ho davanti solo le mie mani e i miei ricordi. Mi è sempre piaciuto leggere e scrivere, fin da ragazzina. Madame Bovary ed io abbiamo quasi lo stesso nome, lei Emma, io Anna. Abbiamo un’altra cosa in comune, entrambe siamo state mogli di un medico, il suo un mezzo incapace, il mio un bravo lavoratore. Mio marito era medico, io infermiera, un amore dolce e rispettoso, durato fino alla sua morte, un anno fa.

Il mio amante invece lo incontrai un paio d’anni dopo essermi sposata. Mio marito lavorava più di me, non restavo incinta, mi annoiavo. La cosa che più ho avuto in comune con Emma, la noia, insieme all’insoddisfazione. Mi è sempre piaciuta, Emma. Tutti conoscono i suoi difetti, meschina, frivola, sognatrice di sogni falsi e stupidi, ma io in lei vedo soprattutto il coraggio, quello che io non ho avuto.

Frequentavo un corso di scrittura per passare il tempo e ritrovare qualche interesse. Lì incontrai il mio vero amore, Guido. Uno studente, un aspirante poeta. Ora che sono sola e mio marito non c’è più – ma l’ho accudito, con dolcezza, con amore, fino all’ultimo, nessuno può negarlo – rivivo ogni giorno nella mia solitudine l’ultimo giorno passato insieme a Guido. Lo chiamo dentro di me “il mio amante”, ma in realtà fu il mio amante mancato.

Era un pomeriggio di sole e andammo al parco cittadino, ricordo bene il tepore sulla pelle, l’odore dell’erba, la bellezza pallida e sottile di Guido, uguale alla mia di allora. Leggevamo poesie, io quelle dei miei poeti preferiti, lui le proprie. Non ricordo alla fine di quale verso ci ritrovammo avvinghiati nell’erba, la sua bocca e il suo corpo che mi cercavano. Ho avuto paura di quell’istante perfetto. Sono scappata. Sono tornata a casa, ho preparato la cena, mi sono detta che amavo mio marito, che non ero quel genere di donna. Ho abbandonato il corso. Per anni non ho scritto più.

Mi sono raccontata a lungo che era stata onestà e non vigliaccheria, ma per i successivi trent’anni non ho passato giorno senza sognare un finale diverso. Ora mio marito è morto, e se i morti sanno tutto, ora sa che non l’ho mai tradito e sa anche che l’ho tradito per tutta la vita. Sa che da moglie l’ho amato, eppure spesso, intensamente, ho desiderato la sua morte.

Tante volte ho desiderato che la sua voce, il suo odore, il suo spazio occupato di fianco a me non ci fossero, per correre a cercare l’altro, dirgli che eravamo ancora in tempo. Eppure, e so che non verrò creduta, la sua vera morte mi ha fatto soffrire intensamente, tanto quanto la sua morte immaginata mi aveva fatto sognare.

Ora non esco quasi mai, vado solo, ogni tanto, a fare un po’ di volontariato all’ospedale psichiatrico. Parlare con quei ragazzi disperati mi fa sentire ancora utile. Uno l’ho anche fatto entrare in Penitenziagite, si fa chiamare Wolverine. Fumetti, roba da giovani. Sono convinta che scrivere gli farà bene, deve scaricare da qualche parte tutta quella fantasia che usa per inventare la propria vita.

A me invece nel gruppo mi ci ha portata Achab. Eccolo che ora mi scrive in chat. Sì, nell’ultimo anno mi sono messa anche a chattare, con uomini soli. Spesso fingo di essere giovane. Non incontro mai nessuno dal vivo, chi mi vorrebbe? Non sono certo più un fiore di primavera. In una di queste chat ho conosciuto Achab. Non mi ha raccontato molto ma ho percepito la sua solitudine, grande come la mia. Gli ho detto la mia vera età, non è scappato. Questo è già molto per me.

Ora mi chiede se ho già scritto il racconto. Gli dico di no. Lui mi scrive “guarda qui”, e invia un link. E’ il blog di questa Dalia, un’intervista. “Per me si scopa questo stronzo” mi scrive Achab, poi mette una faccetta che ride. Guardo il link, quel ragazzo si chiama Guido. Come il mio. Gli assomiglia pure vagamente, a parte i capelli. E a parte che non è poeta ma ingegnere, certo una differenza non da poco. Però che coincidenza, lo stesso nome.

Il vero Guido, il mio, l’ho poi ritrovato, su Facebook naturalmente. Chi non è morto o in galera su Facebook si ritrova, e a volte pure quelli. Non è piu’ un poeta, è un impiegato dall’aria triste. Non lo contatterò. Non voglio restare, come Emma, delusa dai miei sogni.

Non ho ancora scritto niente, ma ora ho la mia storia. Dalia e Guido. Dalia avrà il coraggio che io non ho avuto, anche di uccidere forse. Scriverò finalmente un finale diverso a quel pomeriggio d’estate.

 

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